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Coronavirus, responsabilità medica e del datore di lavoro
Premessa
Pare doveroso parlare preliminarmente di una norma che sarà la cornice che caratterizzerà molte delle cause civili e penali che inevitabilmente scaturiranno dagli eventi connessi alla pandemia da Coronavirus.
L'art. 2236 c.c., nel descrivere i limiti della responsabilità del prestatore d'opera intellettuale, prevede che, nelle ipotesi in cui la prestazione richieda il superamento di problemi di particolare difficoltà tecnica, l'agente non risponda per colpa lieve o media. Risponderà quindi solo per colpa grave.
Per ciò che attiene alla professione medica e in genere a tutte le professionalità connesse, la limitazione di responsabilità troverà applicazione, per l'appunto, solo laddove si sia posta la necessità di risolvere questioni tecniche nuove o di particolare complessità, aventi quindi un alto livello di rischio. Non vi è dubbio che una pandemia come quella di Covid 19 abbia portato in tutte le strutture sanitarie e anche nelle Rsa problemi di particolare difficoltà tecnica, rafforzati da problemi di grande spessore sotto il profilo organizzativo. Il tutto unito a connotazioni temporali particolarmente stringenti. Ne consegue che la soglia di punibilità ai sensi dell'art. 2236 c.c. (da considerarsi ormai pacificamente anche in ambito penalistico) verrà verosimilmente ad innalzarsi, anche in modo sensibile. Tre saranno i principali fronti giudiziali: 1) la struttura sanitaria o assistenziale (responsabili dei presidi ospedalieri e delle Rsa); 2) i medici e gli infermieri operanti nelle strutture ospedaliere e assistenziali di ogni genere; 3) i medici di base e tutte le figure ad essi collegate, in riferimento ai contagiati rimasti e curati a domicilio.
La responsabilità civile e l'onere probatorio
Vale la pena ricordare quella che è nel nostro ordinamento la distribuzione dell'onere probatorio a seconda che l'interessato lamenti, sotto il profilo civilistico e quindi risarcitorio, un illecito contrattuale oppure un illecito extracontrattuale.
Nella responsabilità contrattuale (che è ad esempio quella che si assume la struttura sanitaria verso il paziente) il debitore (della prestazione) che non esegue o esegue male la prestazione stessa dovrà risarcire il danno se non potrà provare che l'illecito è stato causato da qualche fattore a lui estraneo.
Nella responsabilità extracontrattuale (che è ad esempio quella personale del medico), in caso di inadempimento o errato o tardivo adempimento l'onere della prova che l'illecito è riconducibile al professionista e che lo stesso ha agito con colpa o con dolo sarà a carico dei danneggiati.
Il contagio come infortunio sul lavoro - prime considerazioni.
L'art. 42 del Decreto Cura Italia stabilisce che in caso di accertata infezione da Covid19 in occasione di lavoro, l'Inail assicura al lavoratore la tutela prevista dalla legge in caso di infortunio sul lavoro.
Tale previsione è solo la conferma di ciò che è stato fatto negli ultimi decenni ogniqualvolta si è avuto a che fare con agenti biologici. In sostanza nel nostro ordinamento giuslavoristico l'equiparazione tra contagio e sinistro è ormai acquisita come pacifica e pertanto l'odierno legislatore si è comportato di conseguenza.
Le prestazioni di tutela erogate dall'Inail valgono anche per il periodo di quarantena e di permanenza domiciliare.
Questa previsione risolve alla radice ogni dubbio. Sarà l'Inail a occuparsi di tutto il periodo in cui il lavoratore si è astenuto dal lavoro per conseguenza del contagio da coronavirus.
Gli oneri dei predetti eventi infortunistici sono pertanto posti a carico della gestione assicurativa pubblica nel suo complesso, e quindi di tutti i datori di lavoro.
In sostanza l'infortunio sul lavoro causato da Covid19 viene trattato alla stregua dell'infortunio che colpisce il lavoratore lungo il percorso da casa al lavoro e viceversa. Chiaramente non si tratta, di regola, di evenienza necessariamente riconducibile al datore di lavoro. E nemmeno si può pensare che esista un assoluto automatismo tra il contagio e l'intervento dell'Inail. Quest'ultimo si manifesterà solo nel momento in cui vi siano concrete emergenze che lascino ipotizzare come verosimile il fatto che il contagio si sia verificato sul luogo di lavoro. Ulteriormente si deve considerare che, anche una volta che l'Inail abbia preso in carico un lavoratore contagiato e lo abbia indennizzato, non è detto che sia possibile in automatico la rivalsa (o regresso, che dir si voglia) dell'Istituto nei confronti del datore di lavoro. Perché tale rivalsa sia percorribile occorrerà non solo che sia ipotizzabile la perseguibilità penale d'ufficio del datore di lavoro, ma anche che lo stesso sia stato condannato con sentenza passata in giudicato. La nuova disciplina dettata sul punto dalla Legge di Bilancio 2019 al comma 1126 ha da un lato sostanzialmente mutato la natura giuridica del regresso, quantificandone l'ammontare in base alle regole sulla responsabilità amministrativa da illecito penale, e dall'altro portato all'aumento del premio assicurativo a carico del datore di lavoro.
Resta in ogni caso di tutta evidenza che il carattere estremamente mutevole delle variegate prescrizioni fornite dalle numerose Autorità competenti nel corso del periodo emergenziale ha reso incerti e complessi gli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro derivanti dal Covid19. E' comunque del tutto ovvio che il datore di lavoro potrà ragionevolmente ripararsi da pretese civili e accuse penali solo laddove abbia posto in essere tutto quanto era lecito aspettarsi nel momento del contagio, sia perché prescrittogli specificamente, sia perché rientrante nel comune buon senso.
Molti datori di lavoro hanno paventato il rischio di una loro eccessiva esposizione a cause civili e penali derivante dalla sopra citata assimilazione tra contagio e infortunio sul lavoro. Molto dipenderà dal ruolo in concreto assegnato al nesso di causa tra eventuali omissioni in tema di sicurezza sul lavoro e specifico contagio di un determinato lavoratore. Un eventuale, anche solo parziale automatismo tra violazione di norme antiinfortunistiche specifiche e contagio del lavoratore (eventualità da non escludere, stante la fisiologica spinta anche mediatica in favore delle persone danneggiate), porterà ad un effettivo e disastroso allargamento della sfera di responsabilità dei datori di lavoro.
Ai datori di lavoro conviene, come già ricordato, aver posto in essere, con la migliore tempistica possibile, tutte le cautele possibili ed immaginabili in quello specifico momento. Solo così potranno sperare di uscire indenni, sia in sede civile, che in sede penale, da eventuali casi di contagio di loro dipendenti.
Altro rischio paventato dai datori di lavoro è la loro maggiore vulnerabilità alle sanzioni in materia di sicurezza sul lavoro, dovuta anche alla pletorica normazione sul punto. Ed anche questo è un rischio reale. Le ispezioni sul lavoro potrebbero uccidere le imprese più di una loro eventuale responsabilità per il contagio o la morte da Covid19 di un loro dipendente.
La responsabilità penale da Covid19
Indubbiamente è auspicabile che l'avvio di un procedimento penale per omicidio o lesioni colpose venga agganciato non solo a consistenti omissioni rispetto alle precauzioni raccomandate o ragionevoli a contrasto del Covid19 e ad un plausibile se non probabile nesso di causalità tra omissioni precauzionali e singolo, specifico evento lesivo da virus, ma anche all'assenza di cause di forza maggiore (argomento di cui tratteremo in seguito). E' di tutta evidenza che il processo penale, anche laddove dovesse sfociare in una sentenza di proscioglimento, implicherà tempi, costi e danni assai pesanti per gli imputati.
La responsabilità penale in ambito sanitario è regolata dall'art. 590 sexies ("qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge (sono raccomandazioni di comportamento clinico, ad elaborazione multidisciplinare, che vengono compiutamente testate e definite dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche normativamente accreditate e formalmente pubblicate dall'Istituto Superiore di Sanità) ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali (difficile trovare una definizione esaustiva; diciamo che si tratta di una raccolta eterogenea di fonti di conoscenza basate sull'esperienza clinica, e non su studi randomizzati e controllati incontrovertibilmente, ma che l'opinione più o meno unanime degli esperti ritiene sufficientemente fondata, tanto da non giustificare dubbi tali da metterle in discussione; tale raccolta viene anch'essa pubblicata dall'Istituto Superiore di Sanità), sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto"), oltre che dagli artt. 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose), sempre c.p.. Certo non siamo in presenza di una norma chiarissima e nemmeno poi così frequentemente riscontrabile nella pratica, dato che spesso l'imperizia è accompagnata da negligenza e/o imprudenza.
La condotta dell'agente può essere commissiva (allorchè disobbedisce ad un divieto), omissiva (allorchè viola un comando), oppure in un mix di entrambe queste tipologie.
L'art. 43 c.p., con il richiamo alla negligenza, imprudenza e imperizia, nonché alla violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline, sottolinea la necessità, da parte di tutti, di porre in essere molte cautele nell'ambito dell'agire sociale e professionale.
Al tempo stesso tale norma evidenzia che l'agente (ad esempio il medico) non vuole il verificarsi dell'evento (altrimenti il reato sarebbe punito a titolo di dolo e non di colpa) e che il comportamento cautelare richiesto all'agente è concretamente esigibile, cioè l'agente deve avere la materiale possibilità di attuarlo. Ovviamente in ogni caso specifico bisognerà misurare l'effettiva esistenza della violazione e della possibilità di evitarla.
La prevedibilità (cioè il poter prevedere che una determinata condotta possa causare un certo evento) e l'evitabilità del fatto sono certamente alla base del rimprovero rivolto all'agente, ed andranno verificate in ogni caso specifico.
Bisogna altresì verificare che l'agente abbia violato una norma cautelare e non semplicemente il principio di precauzione. Nel primo caso infatti potrà aver luogo l'affermazione della penale responsabilità, mentre nel secondo, basato sul semplice sospetto che a determinate condotte segua un determinato effetto ed in assenza quindi di evidenze scientifiche o probabilistiche in tal senso, non vi potrà essere l'affermazione della penale responsabilità.
Ovviamente non bisogna sovrapporre i criteri di accertamento della causalità a quelli di accertamento della colpa, trattandosi di due ambiti ben distinti.
Il nesso di causa sarà a sua volta inevitabilmente una trincea da tenere a tutti i costi in maniera rigorosa, se si vuole che si facciano dei processi, soprattutto nel penale, tecnici e non mediatici. Non si possono o almeno non si dovrebbero, a maggior ragione in momenti di emergenza da pandemia, creare automatismi che vedano processati medici, infermieri, direttori sanitari e altri a seguito della sola mancata osservanza di norme cautelari.
La norma cautelare, basata sulla prevedibilità ed evitabilità dell'evento, attiene alle situazioni in cui il verificarsi dell'evento stesso, in presenza della condotta colposa, può valutarsi, se non certo, quantomeno possibile sulla base di elementi d'indagine concreti e affidabili, sebbene solo dal punto di vista empirico e quindi non necessariamente scientifico.
Fondamentale diventa poter descrivere l'evento prevedibile. Quest'ultimo non può ritenersi identico a quello realmente verificatosi ma è sufficiente che sia un evento dello stesso genere, analogo.
Al contempo bisogna che non sia prevedibile solo l'evento ma anche il percorso causale, sempre a livello generico, e non necessariamente nel dettaglio.
Diventa importante capire qual è il tipo di agente a cui si fa riferimento o con cui si paragona quello dello specifico caso portato avanti ad un Giudice. Non può essere il soggetto agente il modello di sé stesso, in modo da non avvantaggiare un'ignoranza inammissibile. Non può essere un superesperto, perché si rischierebbe di allargare troppo la platea dei responsabili. Non può essere nemmeno l'uomo comune, perché si rischierebbe di restringere troppo tale platea. Il modello di riferimento può ragionevolmente essere individuato in una persona che abbia approssimativamente la condizione e le competenze dell'agente (ad esempio del medico o del direttore sanitario). A seguire si deve valutare cosa ci si possa e debba aspettare in termini di cautela da un simile "modello". In tempi di pandemia e di conseguente bulimia normativa (da gennaio a maggio nel nostro Paese sono state emanati centinaia di provvedimenti normativi di provenienza governativa, regionale, comunale, etc.), il modello di riferimento deve anche collocarsi in questo quadro normativo fortemente confusionario e pertanto disorientante.
Sul punto è bene precisare che non occorre che l'agente, al momento della condotta, si figuri concretamente le conseguenze del suo agire, ma che possa ragionevolmente figurarsele (melius se le possa figurare il modello di riferimento di cui abbiamo parlato sopra).
La responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che siano derivati dalla violazione della norma cautelare, ma solo a quelli al cui verificarsi è contrapposta quella norma.
Inoltre per aversi la colpa, non solo l'evento deve essere stato cagionato da una condotta soggettivamente riprovevole ma deve anche potersi affermare che una condotta appropriata avrebbe evitato l'evento dannoso.
L'esperienza comune può sicuramente essere una base per la valutazione della responsabilità penale, anche in assenza di precise evidenze scientifiche. Certamente dall'esperienza comune non si possono trarre le certezze (a volte presunte tali) che si traggono dal sapere scientifico. Tuttavia se usata con rigore e valutata in riferimento a tutti gli altri elementi che caratterizzano il caso concreto che è a processo, il dato esperienziale può essere decisivo per far pendere la bilancia da una parte o dall'altra. Sicuramente, almeno nella maggior parte dei casi, l'esperienza comune non si trova disgiunta dalla logica. Quindi di solito esperienza comune e buon senso vanno a braccetto. Se ciò non accade bisogna fare molta attenzione ad applicare al caso concreto il dato esperienziale.
Nel caso di collaborazione tra professionisti sanitari di professioni diverse ogni sanitario è tenuto non solo ad agire secondo le linee guida e le migliori pratiche regole di diligenza, prudenza e perizia tipiche della sua professionalità, ma deve anche tener presente il fine comune e verificare costantemente l'appropriatezza della condotta dei colleghi laddove dallo stesso verificabile. Per l'appunto sono esclusi i casi di eccezionalità e imprevedibilità della condotta dei colleghi.
Sempre in tema di collaborazione, ed in particolare in tema di intervento operatorio, non si può ritenere sussistente la responsabilità professionale dell'aiuto e dell'assistente medico sulla basa unicamente della partecipazione all'intervento svolto in prima persona dal primario, non essendo gli stessi obbligati a dissociarsi dall'attività materialmente compiuta dal primo operatore o a dissociarsi lasciando la sala operatoria. Un tale obbligo potrà ritenersi sussistente solo in caso di mancanze macroscopiche.
L'epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.).
In queste ultime settimane i media hanno dato notizia di parecchie indagini, alcune fin troppo roboanti, avviate in tutta Italia in relazione ad ipotesi di epidemia colposa, soprattutto con riferimento alla situazione creatasi in molte Rsa. In taluni casi alla base di tali indagini vi sono specifici esposti, in altri casi è la Procura competente che decide sua sponte di avviare indagini cd. conoscitive.
Vediamo allora di capire cosa prevede la norma incriminatrice.
L'art. 438 c.p. istituisce il reato di epidemia, punendo, a titolo di dolo, anche eventuale, "...chiunque cagiona un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l'ergastolo...".
La Treccani definisce l'epidemia una manifestazione collettiva di una malattia (colera, influenza, Covid19, etc.) che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto, in dipendenza di vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile. Possiamo dire che tale definizione è sostanzialmente accettata da dottrina e giurisprudenza.
La condotta punita nella norma sopra citata consiste nel CAGIONARE, cioè nel creare l'epidemia. Sembra scontato ma è bene sottolinearlo: non si può cagionare un evento che è già in corso. Pertanto è da escludere che possa rientrare nella fattispecie la condotta di chi peggiora o allarga l'epidemia o ne allunga il tempo di diffusione.
La scarna giurisprudenza sul punto ha già più volte ribadito che il delitto in questione ha natura di evento a forma vincolata, in cui la condotta deve consistere in un particolare comportamento rappresentato dalla rapida diffusione di germi patogeni. La materialità del delitto è altresì costituita da un evento di danno rappresentato dalla concreta manifestazione, in un numero importante di persone, di una malattia eziologicamente collegabile a quei germi patogeni e da un evento di pericolo rappresentato dalla possibilità di ulteriore, massiccia propagazione della stessa malattia in un ambito territoriale esteso, a causa della capacità di tali germi di trasmettersi ad altri individui anche senza un intervento dell'autore dell'originaria diffusione.
L'art. 452 prevede la punibilità dell'epidemia a titolo di colpa, e cioè sulla base dei principi indicati nell'art. 43 c.p., che sono stati ampiamente analizzati in precedenza.
Di recente la Cassazione Penale Sez. IV (n. 9133/2017) ha escluso la configurabilità del delitto di epidemia colposa mediante omissione, poiché la locuzione "mediante la diffusione di germi patogeni" richiede una condotta commissiva a forma vincolata. Bisognerà vedere se questa impostazione troverà conferma nella giurisprudenza che eventualmente si formerà in punto di Covid19.
La forza maggiore (art. 45 c.p.): normativa e giurisprudenza.
Cosa si deve intendere per forza maggiore? Una forza esterna all'agente, un'entità a cui l'agente non può resistere. Tale forza può provenire dalla natura o dal fatto dell'uomo e deve essere imprevedibile, o comunque non impedibile.
Si segnala, in relazione all'inadempimento tributario, questa serie di criteri stabiliti con la sentenza 6/3/2018 n. 19671 Cass. Pen. Sezione Terza: 1) un rilevante margine di scelta in capo all'agente esclude sempre la forza maggiore, perché non esclude l'addebitabilità della condotta allo stesso; 2) la mancanza di strumenti necessari all'adempimento della prestazione non può essere addotta come forza maggiore nel momento in cui è derivata da scelte dell'agente; 3) non si può invocare la scriminante in questione quando il fatto è stato concausato da inadeguati comportamenti tenuti in passato, appartenendo questi sempre alla sfera volitiva e comportamentale dell'agente; 4) la forza maggiore può essere integrata solo da accadimenti non imputabili all'agente e dallo stesso non contrastabili.
E' verosimile che l'accertamento della sussistenza della forza maggiore possa diventare essenziale in molte delle vicende processuali che scaturiranno dal Coronavirus e dai suoi devastanti effetti.